Repubblica — 21 aprile 1996 - pagina 36
TORINO - Poi è successo che dal silenzio si è levata una voce e si è sentita bene, chiara come un urlo dentro una stanza vuota. Una voce sola, limpida, una voce diventata subito eco perchè allo stadio non c' era quasi nessuno, ogni suono pareva rimbalzare sul cemento delle gradinate e tornare indietro, poi ripartire, sbattere di nuovo, alzarsi, ricadere, non morire mai. "Paolo Pu-li-ci, Paolo Pu-li-ci" diceva quella voce ed era come strapparsi la memoria di dosso, fare i ricordi a brandelli, leggere una lapide della Grande Guerra. Ma si sa che una voce bella, chiara, sola, può diventare un coro. E allora il canto si è gonfiato di altissima disperazione, pareva un requiem e non una partita di calcio del Toro che va in B. Altri nomi sulla lapide, una specie di storia granata in sintesi vocale. La curva Maratona li ha chiamati quasi tutti i suoi vecchi figli smarriti, uno per uno e scanditi, ritmati, quelli del mito e quelli del dolore, i grandissimi e i minuscoli, per tutti c' è un posto in qualche angolo di cuore. "Gigi Me-ro-ni, Gigi Me-ro-ni". "Zaccarelli alè alè". "E-ral-do Pecci". "Aldo Agroppi alè alè". "Pa-squa-le Bruno". "Picchia per noi/Giacomo Ferri". "Policano alè alè". "Grande Torino/c' è solo un Grande Torino". "Alzaci la sedia, Emiliano alzaci la sedia". "Amsterdam, Amsterdam, torneremo ad Amsterdam". Bellissimo, terribile. Neppure una bandiera, solo un colossale "Calleri vattene" appeso ai gradoni. E poi un lenzuolo chilometrico: "Anche nell' ultima battaglia siete stati indegni di questa maglia". Fischi, cori, insulti ai granata di oggi, esaltazione della leggenda come modo per farsi male, non solo per volerle bene. Bisognava esserci per vivere lo sdoppiamento tra il Toro che resta e il Torino che passa. Invece non c' era il padrone, il bersaglio, quello che ha detto "me ne vado" e chissà se è vero oppure è un altro bluff del pokerista all' ultima mano. Gian Marco Calleri si è mostrato solo in tv in un ottimo servizio della Rai, poco prima della partita: guidava un macchinone granata, solcava le strade di Montecarlo come un transatlantico, aveva la solita espressione sprezzante. "Mi chiamo fuori, Torino mi ha combattuto prima ancora che arrivassi". Però chiede 25 miliardi per il disturbo, la cifra che ha speso lui: ma quando il capitale si deprezza, quando si prende a picconate un patrimonio così, il valore scende. A queste cifre, nessuno si farà avanti e Calleri lo sa. La voce solitaria allo stadio, dopo, sale altissima, si gonfia di altre mille con insulti duri al presidente che ormai nessuno riconosce nel ruolo, l' uomo di Busalla che lascia macerie. Ancora quel servizio tv: dentro il video c' è il Filadelfia sbarrato, c' è un uomo che parla sul prato di Valentino Mazzola dove cresce la gramigna, si chiama Sauro Tomà, era la riserva di Maroso, doveva morire a Superga ma su quell' aereo non salì mai, lo salvò un ginocchio rotto, oltre alla vita gli è restato il rimorso del superstite e lo dicono i suoi occhi. "Se avessimo giocato sempre qui, noi del Toro, ci saremmo salvati". Parla tra girasoli giganti e cespugli. Zoomata, adesso nello schermo c' è un anziano tifoso in lacrime: "Magari, magari potessimo essere di nuovo un po' felici. Vent' anni fa lo scudetto, adesso la serie B". La curva se la prende pure con Rizzitelli che esce dal campo con un polso mezzo rotto. E grida a Falcone di togliersi la fascia che gli ha appena passato il centravanti. Ma almeno loro c' erano, ci hanno provato, ora soffrono l' umiliazione senza fuggire come fanno invece Calleri e Vitali, sono pronti a retrocedere tra una settimana, Toro-Cremonese: se il Piacenza batte il Padova, tutto finito. Ma chi canta il nome di Pulici e Zaccarelli sa che si può perdere ben altro che la serie A, che ci si può giocare l' anima come alla roulette di Montecarlo: picconando la leggenda, sbarrando uno stadio che è un' idea, un tempio, tagliando i fondi al vivaio, facendo passare alla gente la voglia di esserci e ricordare. Intanto Torino-Milan è lo sfondo di qualcos' altro, il pretesto per cantare la rabbia e tacere la speranza. La gente granata si riprende dopo il pareggio di Cristallini, dall' altra parte c' è pur sempre il Milan a risvegliare l' orgoglio di non voler perdere. E se il presente fa rabbia, se il passato fa male, il piccolo e giovane futuro fa almeno un po' di tenerezza: in campo, adesso, ci sono cinque titolari della Primavera e il tifoso del Toro queste cose le sente. Non li può più chiamare "i ragazzi del Filadelfia", magari Calleri li svenderà tutti, meglio ricordarne i nomi prima che sia troppo tardi: Moreno Longo, Luca Mezzano, Vincenzo Sommese, Augustin Simo e Alberto Bernardi. Il mondo salvato dai ragazzini. Non si possono ancora sillabare, non sono la rima di nessuna canzone della memoria ma almeno riempiono un po' di vuoto tra Pulici e il presente, in un angolo buio del cuore.
- di MAURIZIO CROSETTI
TORINO - Poi è successo che dal silenzio si è levata una voce e si è sentita bene, chiara come un urlo dentro una stanza vuota. Una voce sola, limpida, una voce diventata subito eco perchè allo stadio non c' era quasi nessuno, ogni suono pareva rimbalzare sul cemento delle gradinate e tornare indietro, poi ripartire, sbattere di nuovo, alzarsi, ricadere, non morire mai. "Paolo Pu-li-ci, Paolo Pu-li-ci" diceva quella voce ed era come strapparsi la memoria di dosso, fare i ricordi a brandelli, leggere una lapide della Grande Guerra. Ma si sa che una voce bella, chiara, sola, può diventare un coro. E allora il canto si è gonfiato di altissima disperazione, pareva un requiem e non una partita di calcio del Toro che va in B. Altri nomi sulla lapide, una specie di storia granata in sintesi vocale. La curva Maratona li ha chiamati quasi tutti i suoi vecchi figli smarriti, uno per uno e scanditi, ritmati, quelli del mito e quelli del dolore, i grandissimi e i minuscoli, per tutti c' è un posto in qualche angolo di cuore. "Gigi Me-ro-ni, Gigi Me-ro-ni". "Zaccarelli alè alè". "E-ral-do Pecci". "Aldo Agroppi alè alè". "Pa-squa-le Bruno". "Picchia per noi/Giacomo Ferri". "Policano alè alè". "Grande Torino/c' è solo un Grande Torino". "Alzaci la sedia, Emiliano alzaci la sedia". "Amsterdam, Amsterdam, torneremo ad Amsterdam". Bellissimo, terribile. Neppure una bandiera, solo un colossale "Calleri vattene" appeso ai gradoni. E poi un lenzuolo chilometrico: "Anche nell' ultima battaglia siete stati indegni di questa maglia". Fischi, cori, insulti ai granata di oggi, esaltazione della leggenda come modo per farsi male, non solo per volerle bene. Bisognava esserci per vivere lo sdoppiamento tra il Toro che resta e il Torino che passa. Invece non c' era il padrone, il bersaglio, quello che ha detto "me ne vado" e chissà se è vero oppure è un altro bluff del pokerista all' ultima mano. Gian Marco Calleri si è mostrato solo in tv in un ottimo servizio della Rai, poco prima della partita: guidava un macchinone granata, solcava le strade di Montecarlo come un transatlantico, aveva la solita espressione sprezzante. "Mi chiamo fuori, Torino mi ha combattuto prima ancora che arrivassi". Però chiede 25 miliardi per il disturbo, la cifra che ha speso lui: ma quando il capitale si deprezza, quando si prende a picconate un patrimonio così, il valore scende. A queste cifre, nessuno si farà avanti e Calleri lo sa. La voce solitaria allo stadio, dopo, sale altissima, si gonfia di altre mille con insulti duri al presidente che ormai nessuno riconosce nel ruolo, l' uomo di Busalla che lascia macerie. Ancora quel servizio tv: dentro il video c' è il Filadelfia sbarrato, c' è un uomo che parla sul prato di Valentino Mazzola dove cresce la gramigna, si chiama Sauro Tomà, era la riserva di Maroso, doveva morire a Superga ma su quell' aereo non salì mai, lo salvò un ginocchio rotto, oltre alla vita gli è restato il rimorso del superstite e lo dicono i suoi occhi. "Se avessimo giocato sempre qui, noi del Toro, ci saremmo salvati". Parla tra girasoli giganti e cespugli. Zoomata, adesso nello schermo c' è un anziano tifoso in lacrime: "Magari, magari potessimo essere di nuovo un po' felici. Vent' anni fa lo scudetto, adesso la serie B". La curva se la prende pure con Rizzitelli che esce dal campo con un polso mezzo rotto. E grida a Falcone di togliersi la fascia che gli ha appena passato il centravanti. Ma almeno loro c' erano, ci hanno provato, ora soffrono l' umiliazione senza fuggire come fanno invece Calleri e Vitali, sono pronti a retrocedere tra una settimana, Toro-Cremonese: se il Piacenza batte il Padova, tutto finito. Ma chi canta il nome di Pulici e Zaccarelli sa che si può perdere ben altro che la serie A, che ci si può giocare l' anima come alla roulette di Montecarlo: picconando la leggenda, sbarrando uno stadio che è un' idea, un tempio, tagliando i fondi al vivaio, facendo passare alla gente la voglia di esserci e ricordare. Intanto Torino-Milan è lo sfondo di qualcos' altro, il pretesto per cantare la rabbia e tacere la speranza. La gente granata si riprende dopo il pareggio di Cristallini, dall' altra parte c' è pur sempre il Milan a risvegliare l' orgoglio di non voler perdere. E se il presente fa rabbia, se il passato fa male, il piccolo e giovane futuro fa almeno un po' di tenerezza: in campo, adesso, ci sono cinque titolari della Primavera e il tifoso del Toro queste cose le sente. Non li può più chiamare "i ragazzi del Filadelfia", magari Calleri li svenderà tutti, meglio ricordarne i nomi prima che sia troppo tardi: Moreno Longo, Luca Mezzano, Vincenzo Sommese, Augustin Simo e Alberto Bernardi. Il mondo salvato dai ragazzini. Non si possono ancora sillabare, non sono la rima di nessuna canzone della memoria ma almeno riempiono un po' di vuoto tra Pulici e il presente, in un angolo buio del cuore.
- di MAURIZIO CROSETTI
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