Repubblica - pagina 44
BENEVENTO - Emiliano Mondonico dice che non era il Toro ad avere bisogno della serie A, ma il contrario: "ora siamo ritornati a casa nostra". Ipotesi ardita, spesso contrastata da destini superiori e quindi avversi (c' è sempre un' avversità, sul cammino del Toro) ma anche - e molto più prosaicamente - da tanti guai che la società granata si è attirata addosso come la più tenace delle calamite. Tre anni di serie B, ventisette mesi di penitenza, millecentotrentaquattro giorni di umiliante isolamento sono stati vissuti come una specie di pena ineluttabile da scontare da gente che stava per diventare un popolo senza terra. Perché quelli del Toro - quelli che vivono di fiera e spesso sterile opposizione alla Rube-Fiat - si sentono una razza, appartengono a un' anima comune, vivono di spirito collettivo. E quando terra, razza, anima, spirito hanno rischiato di essere estirpati da dirigenti disonesti (Borsano e Goveani, poi smascherati in tribunale) o semplicemente opportunisti (come quel Calleri che scambiò Vieri con Petrachi e tagliò i ghanesi Gargo e Kouffour per tesserare il brasiliano Marcao: come buttare cento miliardi dalla finestra), il Torino ha temuto l' estinzione bruta e definitiva. Era una candela, bastava un soffio per spegnerla del tutto. Ma anche controvento il Toro è rimasto vivo. Per uscire dall' inferno i granata sono passati attraverso una strettissima uscita secondaria, ma certe vie di fuga non sono mai portoni spalancati: il luogo era molto periferico, Benevento, e l' occasione per niente affascinante, visto che l' avversaria era la Fidelis Andria, tipica realtà di bassa serie B. Eppure proprio ieri il Toro ha sfoderato la più bella partita della sua stagione, spingendo il petto in fuori e non piegandosi a nulla, nemmeno al razzo che alla fine del primo tempo ha colpito Pastine, nemmeno al gol di Mercier che aveva riaperto i giochi, nemmeno alla sfiga storica che i granata sono orgogliosi di portarsi sulle spalle, come patrimonio e non come fardello. Ha segnato Sommese, ragazzino del vivaio che un anno fa s' era spaccato il ginocchio proprio alla vigilia dello spareggio-promozione con il Perugia. Ha segnato Lentini, uomo-simbolo di una rinascita, ex giocatore bandiera e ora vecchio e rinato capitano. Ha segnato Ferrante, che con il ventiseiesimo gol stagionale ha eguagliato il record dell' alessandrino Fanello, stagione preistorica 1960/61. Ha segnato Artistico, esempio di acquisti spesso sbagliati, di una società che faticava a risalire per i suoi stessi errori: è stato il giocatore più pagato, e pure il più deludente. Non ha segnato Mondonico, ma è come se l' avesse fatto: ha litigato con mezza squadra, è stato perseguitato da una pattuglia di gufi sempre molto attiva anche se non altrettanto efficace, ha dato un senso al ritorno nel posto dove aveva vinto una Coppa Italia e perso una Coppa Uefa per colpa di tre pali, ha realizzato un' impresa che non è mai stata scontata, perché il Torino di oggi è grande soltanto nel nome e nei ricordi, non nella sua realtà tecnica di seconda fila. "Nel mio lavoro io cerco i rapporti umani, qui li ho trovati dentro la società, ma non intorno. Il professionista è felice, l' uomo è triste. Ma dell' uomo, ormai, non frega più niente a nessuno". Adesso è il futuro, la chiave del Torino. C' è una cordata di imprenditori di orbita Fiat che vorrebbe comprare la società, e l' ha strillato attraverso i giornali, anche se alla base c' è il business della ricostruzione del vecchio Filadelfia, lo stadio mandato in rovina da Calleri e ora così difficile da recuperare proprio perché sono in molti a litigare per farlo. I quattro genovesi che hanno in mano il Toro si sono trovati in difficoltà davanti ad attacchi frontali e insidie nascoste, ma i risultati parlano a loro favore, tanto più che hanno dovuto ricostruire una società ormai ridotta a zero, lontana dalla passione popolare e dalla tradizione del suo vivaio. "C' è un' offerta per comprare, ma noi non vogliamo vendere", ha ribadito ieri il presidente Vidulich, accusato di non avere una lira. La tristezza di Mondonico dipende anche da questa vicenda, e dalle manovre attorno alla società: i pretendenti alla presidenza lo hanno già liquidato prima ancora di concludere l' affare, Vidulich lo ha confermato e quindi Mondonico resterà. "Perché le sfide non mi fanno paura, perché con il Toro io sono in debito perenne". Ieri Torino si è buttata in piazza e poi si è riversata all' aeroporto, si è parlato già molto del prossimo derby. Nel futuro della squadra ci sono già alcuni acquisti realizzati: il brasiliano Cruz - ex Milan e Napoli -, due giovane svedesi (il mediano Lantz e il terzino Edman), il vecchio Silenzi che farà la quarta punta, lo Rubentino Pecchia e Domenico Morfeo, poulin di Mondonico.
- dal nostro inviato EMANUELE GAMBA
BENEVENTO - Emiliano Mondonico dice che non era il Toro ad avere bisogno della serie A, ma il contrario: "ora siamo ritornati a casa nostra". Ipotesi ardita, spesso contrastata da destini superiori e quindi avversi (c' è sempre un' avversità, sul cammino del Toro) ma anche - e molto più prosaicamente - da tanti guai che la società granata si è attirata addosso come la più tenace delle calamite. Tre anni di serie B, ventisette mesi di penitenza, millecentotrentaquattro giorni di umiliante isolamento sono stati vissuti come una specie di pena ineluttabile da scontare da gente che stava per diventare un popolo senza terra. Perché quelli del Toro - quelli che vivono di fiera e spesso sterile opposizione alla Rube-Fiat - si sentono una razza, appartengono a un' anima comune, vivono di spirito collettivo. E quando terra, razza, anima, spirito hanno rischiato di essere estirpati da dirigenti disonesti (Borsano e Goveani, poi smascherati in tribunale) o semplicemente opportunisti (come quel Calleri che scambiò Vieri con Petrachi e tagliò i ghanesi Gargo e Kouffour per tesserare il brasiliano Marcao: come buttare cento miliardi dalla finestra), il Torino ha temuto l' estinzione bruta e definitiva. Era una candela, bastava un soffio per spegnerla del tutto. Ma anche controvento il Toro è rimasto vivo. Per uscire dall' inferno i granata sono passati attraverso una strettissima uscita secondaria, ma certe vie di fuga non sono mai portoni spalancati: il luogo era molto periferico, Benevento, e l' occasione per niente affascinante, visto che l' avversaria era la Fidelis Andria, tipica realtà di bassa serie B. Eppure proprio ieri il Toro ha sfoderato la più bella partita della sua stagione, spingendo il petto in fuori e non piegandosi a nulla, nemmeno al razzo che alla fine del primo tempo ha colpito Pastine, nemmeno al gol di Mercier che aveva riaperto i giochi, nemmeno alla sfiga storica che i granata sono orgogliosi di portarsi sulle spalle, come patrimonio e non come fardello. Ha segnato Sommese, ragazzino del vivaio che un anno fa s' era spaccato il ginocchio proprio alla vigilia dello spareggio-promozione con il Perugia. Ha segnato Lentini, uomo-simbolo di una rinascita, ex giocatore bandiera e ora vecchio e rinato capitano. Ha segnato Ferrante, che con il ventiseiesimo gol stagionale ha eguagliato il record dell' alessandrino Fanello, stagione preistorica 1960/61. Ha segnato Artistico, esempio di acquisti spesso sbagliati, di una società che faticava a risalire per i suoi stessi errori: è stato il giocatore più pagato, e pure il più deludente. Non ha segnato Mondonico, ma è come se l' avesse fatto: ha litigato con mezza squadra, è stato perseguitato da una pattuglia di gufi sempre molto attiva anche se non altrettanto efficace, ha dato un senso al ritorno nel posto dove aveva vinto una Coppa Italia e perso una Coppa Uefa per colpa di tre pali, ha realizzato un' impresa che non è mai stata scontata, perché il Torino di oggi è grande soltanto nel nome e nei ricordi, non nella sua realtà tecnica di seconda fila. "Nel mio lavoro io cerco i rapporti umani, qui li ho trovati dentro la società, ma non intorno. Il professionista è felice, l' uomo è triste. Ma dell' uomo, ormai, non frega più niente a nessuno". Adesso è il futuro, la chiave del Torino. C' è una cordata di imprenditori di orbita Fiat che vorrebbe comprare la società, e l' ha strillato attraverso i giornali, anche se alla base c' è il business della ricostruzione del vecchio Filadelfia, lo stadio mandato in rovina da Calleri e ora così difficile da recuperare proprio perché sono in molti a litigare per farlo. I quattro genovesi che hanno in mano il Toro si sono trovati in difficoltà davanti ad attacchi frontali e insidie nascoste, ma i risultati parlano a loro favore, tanto più che hanno dovuto ricostruire una società ormai ridotta a zero, lontana dalla passione popolare e dalla tradizione del suo vivaio. "C' è un' offerta per comprare, ma noi non vogliamo vendere", ha ribadito ieri il presidente Vidulich, accusato di non avere una lira. La tristezza di Mondonico dipende anche da questa vicenda, e dalle manovre attorno alla società: i pretendenti alla presidenza lo hanno già liquidato prima ancora di concludere l' affare, Vidulich lo ha confermato e quindi Mondonico resterà. "Perché le sfide non mi fanno paura, perché con il Toro io sono in debito perenne". Ieri Torino si è buttata in piazza e poi si è riversata all' aeroporto, si è parlato già molto del prossimo derby. Nel futuro della squadra ci sono già alcuni acquisti realizzati: il brasiliano Cruz - ex Milan e Napoli -, due giovane svedesi (il mediano Lantz e il terzino Edman), il vecchio Silenzi che farà la quarta punta, lo Rubentino Pecchia e Domenico Morfeo, poulin di Mondonico.
- dal nostro inviato EMANUELE GAMBA
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