Repubblica — 12 marzo 1997 - pagina 13
FORSE la chiameremo la città degli stadi morti. Dopo i girasoli sul campo di Valentino Mazzola, dopo i ruderi dimenticati del Filadelfia e il cemento del Comunale che si sfarina al sole, ecco il Delle Alpi col suo lugubre vuoto, astronave che sta per essere evacuata dalla Rubentus. Torino, capitale degli scudetti, perderà il calcio a tempo indeterminato (anche i granata, infatti, sceglieranno la fuga: forse ad Alessandria). Colpa di scelte sbagliate, investimenti eccessivi, progetti gigantisti, costi cresciuti a ritmo mostruoso. Colpa delle famigerate notti magiche che ancora fanno sbarrare gli occhi a qualcuno, proprio come accadeva a Totò Schillaci nel '90. L' esatto teorema dei numeri dà ragione ai dirigenti bianconeri, che trasferendo la squadra a Reggio Emilia, ipotesi più probabile, spenderebbero appena 500 milioni annui contro gli oltre cinque miliardi attuali. Avrebbero grandi vantaggi pubblicitari e uno stadio sempre pieno, inserirebbero a bilancio voci in perenne attivo (merchandising, ristorazione, parcheggi), trasformerebbero la Rubentus in un prodotto televisivo perche se il numero degli abbonamenti supera l' ottanta per cento della capienza dell' impianto, si possono vendere anche le gare in casa: dunque i torinesi comprerebbero la tele-Rube 34 partite su 34, e se si è televisivi è più facile chiedere altri soldi alla Lega, inclinare a proprio vantaggio la bilancia della mutualità. Inoltre lo stadio emiliano, unico caso in Italia, è privato. E questo facilita accordi, intese, spartizioni. Se il Delle Alpi è uno spaventoso imbuto, un' idrovora che succhia un miliardo al mese, esistono tuttavia ragioni altrettanto valide perche una squadra di calcio non abbandoni il proprio territorio e la propria storia. La Rubentus celebra nel '97 i cent' anni, e lo fa dicendo addio a Torino: nel momento della memoria, la memoria diventa oblio. Un paradosso. Cent' anni che non sono soltanto le parate di Combi, le rovesciate di Parola, le punizioni di Platini, ma racchiudono un secolo di tifo, amori popolari, migrazioni, attese, sogni. Se la conoscenza del passato è coscienza del futuro, un secolo di Rube non si cancella per cinque miliardi in più, nella stagione in cui i dirigenti bianconeri ne verserebbero 40 a tutti i giocatori in caso di doppio successo in campionato e Coppa. La passione della gente non è una voce a bilancio, però conta. In cent' anni ha portato soldi, non solo bandiere e cori. SPESSO, l' esattezza dei numeri fa rima con freddezza. Uno stadio, anche uno stadio sbagliato, resta un luogo di storia sociale, di aggregazione, di appartenenza, di cultura. La Rubentus rappresenta Torino nel mondo, ma da Torino ha anche avuto molto. Gianni e Umberto Agnelli non possono ignorare il rischio di profondo disamore che comporta la trasformazione di una squadra di calcio in una compagnia di giro. Si monta il tendone, si staccano i biglietti, si vendono i pop corn. Ma ci vuol poco a cominciare trapezisti e finire clown. Se a Torino lo stadio rimane vuoto, lontano da Torino starebbero fuori in troppi. Reggio Emilia ha 29.650 posti, Monza 18.568, Bologna 39.503, Verona 42.500. Raddoppierebbero i problemi di ordine pubblico e quelli sono soldi che paga la collettività: infatti, proprio come la passione, non finiscono nel bilancio bianconero ma pesano. In cent' anni la Rube ha rappresentato un' idea, è stata una terra d' adozione per tanta gente arrivata fin qui per vedere Beppe Furino, Causio il barone, Anastasi detto 'u turcu. Non è retorica, è storia. Molti di loro hanno avvitato bulloni per la Fiat, magari usando la chiave a stella che Primo Levi trasformò in simbolo dell' etica del lavoro, di un lavoro fatto bene.
Molti la usano ancora, e la Rubentus fa parte della loro vita. La Rubentus di Torino.
- Maurizio Crosetti
FORSE la chiameremo la città degli stadi morti. Dopo i girasoli sul campo di Valentino Mazzola, dopo i ruderi dimenticati del Filadelfia e il cemento del Comunale che si sfarina al sole, ecco il Delle Alpi col suo lugubre vuoto, astronave che sta per essere evacuata dalla Rubentus. Torino, capitale degli scudetti, perderà il calcio a tempo indeterminato (anche i granata, infatti, sceglieranno la fuga: forse ad Alessandria). Colpa di scelte sbagliate, investimenti eccessivi, progetti gigantisti, costi cresciuti a ritmo mostruoso. Colpa delle famigerate notti magiche che ancora fanno sbarrare gli occhi a qualcuno, proprio come accadeva a Totò Schillaci nel '90. L' esatto teorema dei numeri dà ragione ai dirigenti bianconeri, che trasferendo la squadra a Reggio Emilia, ipotesi più probabile, spenderebbero appena 500 milioni annui contro gli oltre cinque miliardi attuali. Avrebbero grandi vantaggi pubblicitari e uno stadio sempre pieno, inserirebbero a bilancio voci in perenne attivo (merchandising, ristorazione, parcheggi), trasformerebbero la Rubentus in un prodotto televisivo perche se il numero degli abbonamenti supera l' ottanta per cento della capienza dell' impianto, si possono vendere anche le gare in casa: dunque i torinesi comprerebbero la tele-Rube 34 partite su 34, e se si è televisivi è più facile chiedere altri soldi alla Lega, inclinare a proprio vantaggio la bilancia della mutualità. Inoltre lo stadio emiliano, unico caso in Italia, è privato. E questo facilita accordi, intese, spartizioni. Se il Delle Alpi è uno spaventoso imbuto, un' idrovora che succhia un miliardo al mese, esistono tuttavia ragioni altrettanto valide perche una squadra di calcio non abbandoni il proprio territorio e la propria storia. La Rubentus celebra nel '97 i cent' anni, e lo fa dicendo addio a Torino: nel momento della memoria, la memoria diventa oblio. Un paradosso. Cent' anni che non sono soltanto le parate di Combi, le rovesciate di Parola, le punizioni di Platini, ma racchiudono un secolo di tifo, amori popolari, migrazioni, attese, sogni. Se la conoscenza del passato è coscienza del futuro, un secolo di Rube non si cancella per cinque miliardi in più, nella stagione in cui i dirigenti bianconeri ne verserebbero 40 a tutti i giocatori in caso di doppio successo in campionato e Coppa. La passione della gente non è una voce a bilancio, però conta. In cent' anni ha portato soldi, non solo bandiere e cori. SPESSO, l' esattezza dei numeri fa rima con freddezza. Uno stadio, anche uno stadio sbagliato, resta un luogo di storia sociale, di aggregazione, di appartenenza, di cultura. La Rubentus rappresenta Torino nel mondo, ma da Torino ha anche avuto molto. Gianni e Umberto Agnelli non possono ignorare il rischio di profondo disamore che comporta la trasformazione di una squadra di calcio in una compagnia di giro. Si monta il tendone, si staccano i biglietti, si vendono i pop corn. Ma ci vuol poco a cominciare trapezisti e finire clown. Se a Torino lo stadio rimane vuoto, lontano da Torino starebbero fuori in troppi. Reggio Emilia ha 29.650 posti, Monza 18.568, Bologna 39.503, Verona 42.500. Raddoppierebbero i problemi di ordine pubblico e quelli sono soldi che paga la collettività: infatti, proprio come la passione, non finiscono nel bilancio bianconero ma pesano. In cent' anni la Rube ha rappresentato un' idea, è stata una terra d' adozione per tanta gente arrivata fin qui per vedere Beppe Furino, Causio il barone, Anastasi detto 'u turcu. Non è retorica, è storia. Molti di loro hanno avvitato bulloni per la Fiat, magari usando la chiave a stella che Primo Levi trasformò in simbolo dell' etica del lavoro, di un lavoro fatto bene.
Molti la usano ancora, e la Rubentus fa parte della loro vita. La Rubentus di Torino.
- Maurizio Crosetti
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