Scritto da Camelot - 22/01/2009
...Nel silenzio che scendeva in stanza riecheggiavano, dapprima piano, poi in un crescendo ordinato le voci degli altri spettatori che con un festoso trambusto prendevano posto sugli spalti...
Per salire sugli spalti della mia fantasia non bisognava pagare il biglietto. L’unico prezzo era il rimbrotto che mia madre indirizzava a mio padre, perché, benché fossi cresciutello, volevo che fosse lui a portarmi a dormire.
C’erano motivi profondi in questo rituale serale, motivazioni che lei riconduceva a ingiustificabili immaturità, ma invece, c’era un perchè serio che noi sapevamo bene e gelosamente custodivamo. Appena mi stendevo nel letto, mi stringevo alle lenzuola e quasi contemporaneamente il colore bianco delle stesse stingeva verso il verde. Di bianco restavano solo le strisce che delimitavano l’area del campo da giuoco.
Nel silenzio che scendeva in stanza riecheggiavano, dapprima piano, poi in un crescendo ordinato le voci degli altri spettatori che con un festoso trambusto prendevano posto sugli spalti.
Non rimaneva neanche un centimetro vuoto in quello stadio, ogni sera c’era lo stesso venticello che accarezzava l’erba piegandola, disegnando dei ricami ordinati e accurati che dal centrocampo degradavano verso l’area di rigore. Di quell’immagine conservo persino l’odore, e intorno vedevo omini grigi e seri che sistemavano le bandierine del calcio d’angolo e intanto la gente impaziente cominciava a battere le mani, voleva lo spettacolo.
Uomini austeri come il cielo che sapevo copriva le città del nord, perdevano la loro serietà, svestivano il cappello, e diventavano irrequieti come bambini nell’aspettare i loro preferiti, i loro “ragazzi” che da un momento all’altro sarebbero sbucati dal sottopassaggio, o arrivati da uno dei cancelli laterali, e avrebbero calcato quell’erba, fatto rotolare il pallone in un disegno di rette, di geometrie divine, di passaggi, finte, dribbling, cross, il tutto in un crogiuolo in cui il campo di gioco, la calce delle strisce, il sudore dei calciatori, gli applausi, le speranze, le emozioni, le lacrime e l’ entusiasmo avrebbero avuto un solo nome e un solo grido. Nello stesso momento saremmo stati tutti causa ed effetto della stessa situazione, ognuno di noi era la bandiera e la bandiera era per tutti noi , sebbene ancora in trepida attesa, eravamo già orgogliosi di essere “il Grande Torino”.
Nel tramutarsi della camera da letto da stanza a curva, papà cominciava a snocciolare con calma, con voce calda, ogni volta sempre emozionata, i nomi.
La formazione era fatta, oh si, già dal pomeriggio, ero sicuro che mentre finivo di giocare tra le viuzze in discesa della collinetta su cui la mia casa era arroccata insieme alle altre, da qualche parte qualcuno stava stirando le maglie granata da dare, una per una, profumata e piagata a quelli che Lievesley aveva individuato, sapientemente, facendo alchimie con motivazione, stanchezza, forma fisica e un pizzico di fortuna per metter in campo “gli invincibili”.
Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.
Eccolo lì Mazzola è il primo ad entrare in campo, porta in mano dei fiori, ci sono sempre delle belle donne a dare fiori al capitano prima dell’incontro. È una giornata calda, ma ha le maniche abbassate, dietro di lui Valerio Bacigalupo, detto il baciga, corre sgambettando, calcia un pallone marrone che fa rimbalzare a terra e poi afferra con quelle mani enormi che un altro destino avrebbe voluto da farmacista. I suoi capelli lasciano cadere un ciuffo sugli occhi, cosa vuoi, un portiere deve chiudere dentro se sempre un pizzico di follia.
Qui non si tratta di far gol, o inventare un passaggio, magari nell’ultimo spicchio di campo, di illuminare pomeriggi che si stanno arrendendo alla noia con una gioccata che lascerà il segno sullo “sport illustrato”, qui si tratta di volare da un palo all’altro, di uscire rovinosamente tra i piedi di un attaccante lanciato in gol a mille all’ora e poi di rialzarsi, risistemare il ciuffo e rinviare.
Tutto qui, dietro di se il baratro, lui la diga a cui il Toro è arpionato. Come è successo l’ultima domenica in Italia, a Milano contro l’Inter, in uno zero a zero che porta la sua firma, sia sul risultato, sia sul quinto scudetto.
Per essere baciga bisogna avere coraggio, ma anche disprezzo del pericolo, devi essere un po’ matto e un po’ artista.
Segue Ballarin, c’è anche suo fratello da qualche parte nello stadio e dietro di lui il conte.
Gabetto, ah si Gabetto ha giocato anche nella Juve. È un signore elegante i suoi capelli sono tirati a lucido, li potresti contare uno a uno.
Quando gioca è una armonia, è profondamente scaramantico, ripete minuziosamente tutti i gesti che ha fatto l’ultima volta che ha giocato e vinto.
Si veste nello stesso modo, ripete piccole e private cabale, poi entra in campo con la sua maglia numero 9 e si mette ad aspettare ogni pallone che Menti da una parte e Mazzola dall’altra fanno piovere in area.
E questo è il suo mondo, l’area di rigore, questi sedici metri che vanno tra due linee bianche che rappresentano una fascia che viene scrutata da tutto il pubblico col fiato tirato, gli occhi spalancati, con l’anima in gola pronta ad urlare quella parola talmente dolce, che non la sprechi per non dire che l’hai usata quando non ti serviva.
In quell’area Gabetto è il terminale di tutti i nostri sogni, e lo vedo girare la testa, scrutare a 360 gradi il campo, cercare, nelle pause, il volto di qualche persona amica, di quelli che al bar lo incontrano e lo chiamano affettuosamente Guglielmo e lui risponde, in quella Torino che aspetta qualche raggio di sole alla domenica per correre allo stadio di Via Filadelfia a veder giocare il TORO.
Perché Gabetto e tutti gli altri sono uomini normali, usciti dalla guerra, hanno due paia di scarpe, uno per andare in giro e uno per giocare al calcio, il giorno finiti gli allenamenti vanno a casa in tram.
Sono una squadra, sono gli invincibili, sono un gruppo di amici, tra essi è Martelli, Danilo godeva di tale considerazione da parte dei suoi compagni, che quando il Toro ebbe necessità di vendere qualcuno per riassestare le proprie finanze, e aveva pensato di cedere Martelli, nuovo astro nascente e appetito da molte squadre, i suoi compagni organizzarono una specie di autotassazione per arrivare alla metà della cifra che l'avrebbero pagato le altre squadre, pur di farlo rimanere granata. Dettagli di rapporti umani irripetibili o una storia comune? Forse una storia comune, eppure così lontana, così affascinante, così densa di tanti altri significati. Basta pensare che questo amore lo consegnò alla memoria di tutti.
Ma adesso sono in campo, in questa interminabile partita che si svolge nella mia mente, in cui il Torino sta perdendo, ha preso un gol!!!
No non era fuorigioco, a nessuno è venuto il sospetto che fosse irregolare, ma quale moviola, ma quali commentatori bene informati, gli avversari hanno segnato.
Stiamo perdendo. Gli invincibili non cercano nel fondo delle tazze i motivi della loro rovina, gli invincibili giocano a calcio, giocano il calcio.
Gli avversari hanno segnato, potrebbe essere chiunque quel giocatore avversario che ha fatto gol. Ha la maglia dell’Inter, anzi della Juve (l’ex squadra di Gabetto) o del Milan.
Ecco, ecco quello che ha segnato e del Milan, Milan 1 Torino 0. Non si può vincere sempre dieci a zero come è successo contro l’Alessandria. Questa volta bisogna rimontare.
Perché si può rimontare, ma non vedo la giusta grinta oggi, forse qualcosa non va, forse mister Lievesley non ha detto le cose giuste a questi uomini del Torino a cui noi tutti adesso affidiamo il nostro orgoglio.
Lo stadio è in piedi, tutti applaudono, battono i piedi a terra, invocano TORO, TORO, nessuno li ha organizzati, è la nostra passione.
Sento tutto, gli applausi, le urla, immagino un signore davanti a me che si gira e mi dice, in un dialetto che non capisco, qualcosa che intuisco essere più o meno “oggi non è giornata”. Ma dietro di me papà mi riassicura.
Vedrai è solo il primo tempo è già successo con la Roma, andare sotto di un gol, ci può stare. Una volta perdeva uno a zero poi vinse sette a uno.
Si ma come si fa?
Intanto il ferroviere, “il Bolmida”, si è alzato.
La gente intorno ha fatto silenzio, tutti lo guardano ammirati, è il suo momento. Ci vuole tutta la grinta adesso, è ora di diventare grandi, GRANDE TORINO.
Bolmida tira fuori la tromba e suona la carica.
Quella di cavalleria, mentre suona lo stadio tace, i giocatori rallentano il gioco, osservano con rispetto qualche attimo di tributo al loro tifoso che li sta invocando, che sta ricordando loro che siamo qui per vederli essere quella perfetta macchina da gioco, costruita con amore da Ferruccio Novo e consegnata non agli sponsor, non alle TV, non alla borsa, ma alla gente che ha diritto a novanta minuti di gioco come solo gli invincibili del Torino sanno fare.
La carica finisce, un lungo applauso, Valentino Mazzola si rimbocca le maniche è la liturgia della domenica granata, il prossimo passo è trasformare lo stadio in arena dove il Toro vince. Esperimento di tauromachia universale, da animale sacrificale ad ara del calcio.
E così è ogni notte. I passaggi di Loik, la geometria di Castigliano, l’impareggiabile grinta di Rigamonti, la velocità di Menti, nomi consacrati dal destino ad essere toponomastica delle domeniche alla radio.
Tutti i loro nomi sono diventati quello di uno stadio.
Li immagino aspettarsi, alla fine di una giornata di allenamento, voci nei corridoi, asciugamani in cui avvolgono la testa bagnata prima di impomatarla come è degno dell’epoca.
Dopo la partita ci si trova in centro, Rigamonti (il riga se non è in campo è scappato in moto), Bacigalupo (il bacia) e Martelli sono il trio Nizza.
Abitavano lì nei primi giorni da giocatori del Toro, in una pensione.
Nel cortile dello stadio Filadelfia, le maglie ad asciugare, sudari collettivi di un mondo che vuole ricominciare a vivere e lo fa giocando.
Il Torino è l’Italia, il granata è l’azzurro, il capitano è sempre lo stesso e non lo piegano supposizioni, illazioni, il fastidio di una vita privata che viene già deviata verso la morbosità pubblica.
Valentino è di tutti, come il Torino, come il sogno degli invincibili. La partita continua, il Toro attacca, a testa bassa, sbuffa, ma è elegante.
Guardo Rigamonti intercettare il cross che sarebbe destinato alla punta milanista. Palla a terra guarda avanti Mario, davanti è la vita, davanti è la gloria, davanti c’è il gol. La palla è del Toro, il pubblico tace, riprende fiato. A centrocampo Casigliano si è liberato raggiunge il pallone e adesso fa passettini verso la linea di mediana. Intanto Menti si apre a destra, mentre Loik, che ha già ricevuto il pallone, immagina dove può essere il suo capitano.
La loro è una intesa che viene da lontano, da Venezia dove sono diventati uomini insieme, Loik a Mazzola, Mazzola a Loik, lungo per Menti, palla in area, Ossola fa il velo per l’accorrente Gabetto, colpo di testa e gol, anzi no!! Traversa, perché a segnare subito non c’è gusto, perché è nella difficoltà che si tempra il carattere, perché questo gol me lo voglio sognare bene e poi Gabetto deve segnare il gol della vittoria, quindi palla a Mazzola che apre a sinistra, c’è Grezar in corsa, piatto di sinistro angolato e pubblico è in piedi, il Toro pareggia.
È ancora Toro, palla avanti, li vedi scendere sulle fasce, guardali agili nella loro casacca aderenti, cucite in lana su cui lo scudetto (sempre lo stesso da 4 anni) è attaccato dalla sarta, non è griffato.
Il Toro gioca e vince, come vinceva nella realtà degli anni quaranta, non ci sono coppe europee, ma la sua fama è mondiale, una tournè sudamericana, il brasile e addirittura in dieci granata su undici contro i maestri inglesi.
Sfida colossale, sconfitta onorevole dinanzi agli spietati leoni di Inghilterra, e loro i granata/azzurri di Vittorio Pozzo, ansimanti e sconfitti persero la gara, ma vinsero il cuore di tutti gli italiani, non solo quelli di parte granata.
Chi poteva contro gli invincibili? Nessuno, il campionato del 1949 si va concludendo e sebbene non è stato un anno da record come quello appena passato, gli invincibili saranno presto Campioni d’Italia per la quinta volta.
Quella coppa che viene consegnata al capitano dei campioni d’Italia, grande come il cuore d’Italia, che conterrà il cuore di tutta l’Italia, Valentino non la vide per la quinta volta e a Pozzo, che sarebbe arrivato a festeggiare i suoi ragazzi, toccò l’ingrato compito di capire da un particolare chi fosse l’irriconoscibile maschera di morte che in un pomeriggio di maggio, bagnato da un cielo cieco e sordo all’amore di tutti, restava sotto un muro della basilica di Superga.
Perché il racconto delle mie sere di bambino parla di un viaggio in Portogallo, dove un amico aspettava per celebrare l’addio al calcio.
Francisco Ferriera, nazionale lusitano e grande giocatore del Benefica, ha invitato il Toro al suo addio all’attività agonistica.
Una festa che avrebbe avuto senso solo se ci fosse stato in campo la vedette dello sport mondiale.
Valentino volò a Lisbona con tutto il Toro, giocò e perse, anzi gioco, perse ma vinse!!!
Uscì dal campo come sempre, la gente era in piedi, il calcio aveva vinto, lo sport aveva vinto, il Torino aveva giocato in quello stadio e come sempre aveva vinto, quantomeno perché tutti erano felici perché gli invincibili erano stati lì.
Il racconto continua col rumore di un aereo in volo tra nuvole basse che sfiorano le cupole di Superga. Torino è grigia, è maggio ma piove, fa freddo non si vede a pochi metri.
Nessuno ancora ha deposto sciarpe e cappelli, sembra che oggi Dio abbia dimenticato di colorare il mondo, vuole destinare a questa giornata solo scene in bianco e nero.
Poi un rumore, ma per me è la sveglia.
Mi alzo, non sono più un bambino, mio padre non c’è, vado a lavorare, ma stasera, come faccio da trenta anni, tornerò nel mio letto a ricordare una voce, chiuderò gli occhi e senza fare altro li vedrò spuntare dal sottopassaggio, lo stadio è già pieno, siamo tutti in attesa, forza Valentino, comincia a giocare, gli invincibili sono immortali.
...Nel silenzio che scendeva in stanza riecheggiavano, dapprima piano, poi in un crescendo ordinato le voci degli altri spettatori che con un festoso trambusto prendevano posto sugli spalti...
Per salire sugli spalti della mia fantasia non bisognava pagare il biglietto. L’unico prezzo era il rimbrotto che mia madre indirizzava a mio padre, perché, benché fossi cresciutello, volevo che fosse lui a portarmi a dormire.
C’erano motivi profondi in questo rituale serale, motivazioni che lei riconduceva a ingiustificabili immaturità, ma invece, c’era un perchè serio che noi sapevamo bene e gelosamente custodivamo. Appena mi stendevo nel letto, mi stringevo alle lenzuola e quasi contemporaneamente il colore bianco delle stesse stingeva verso il verde. Di bianco restavano solo le strisce che delimitavano l’area del campo da giuoco.
Nel silenzio che scendeva in stanza riecheggiavano, dapprima piano, poi in un crescendo ordinato le voci degli altri spettatori che con un festoso trambusto prendevano posto sugli spalti.
Non rimaneva neanche un centimetro vuoto in quello stadio, ogni sera c’era lo stesso venticello che accarezzava l’erba piegandola, disegnando dei ricami ordinati e accurati che dal centrocampo degradavano verso l’area di rigore. Di quell’immagine conservo persino l’odore, e intorno vedevo omini grigi e seri che sistemavano le bandierine del calcio d’angolo e intanto la gente impaziente cominciava a battere le mani, voleva lo spettacolo.
Uomini austeri come il cielo che sapevo copriva le città del nord, perdevano la loro serietà, svestivano il cappello, e diventavano irrequieti come bambini nell’aspettare i loro preferiti, i loro “ragazzi” che da un momento all’altro sarebbero sbucati dal sottopassaggio, o arrivati da uno dei cancelli laterali, e avrebbero calcato quell’erba, fatto rotolare il pallone in un disegno di rette, di geometrie divine, di passaggi, finte, dribbling, cross, il tutto in un crogiuolo in cui il campo di gioco, la calce delle strisce, il sudore dei calciatori, gli applausi, le speranze, le emozioni, le lacrime e l’ entusiasmo avrebbero avuto un solo nome e un solo grido. Nello stesso momento saremmo stati tutti causa ed effetto della stessa situazione, ognuno di noi era la bandiera e la bandiera era per tutti noi , sebbene ancora in trepida attesa, eravamo già orgogliosi di essere “il Grande Torino”.
Nel tramutarsi della camera da letto da stanza a curva, papà cominciava a snocciolare con calma, con voce calda, ogni volta sempre emozionata, i nomi.
La formazione era fatta, oh si, già dal pomeriggio, ero sicuro che mentre finivo di giocare tra le viuzze in discesa della collinetta su cui la mia casa era arroccata insieme alle altre, da qualche parte qualcuno stava stirando le maglie granata da dare, una per una, profumata e piagata a quelli che Lievesley aveva individuato, sapientemente, facendo alchimie con motivazione, stanchezza, forma fisica e un pizzico di fortuna per metter in campo “gli invincibili”.
Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.
Eccolo lì Mazzola è il primo ad entrare in campo, porta in mano dei fiori, ci sono sempre delle belle donne a dare fiori al capitano prima dell’incontro. È una giornata calda, ma ha le maniche abbassate, dietro di lui Valerio Bacigalupo, detto il baciga, corre sgambettando, calcia un pallone marrone che fa rimbalzare a terra e poi afferra con quelle mani enormi che un altro destino avrebbe voluto da farmacista. I suoi capelli lasciano cadere un ciuffo sugli occhi, cosa vuoi, un portiere deve chiudere dentro se sempre un pizzico di follia.
Qui non si tratta di far gol, o inventare un passaggio, magari nell’ultimo spicchio di campo, di illuminare pomeriggi che si stanno arrendendo alla noia con una gioccata che lascerà il segno sullo “sport illustrato”, qui si tratta di volare da un palo all’altro, di uscire rovinosamente tra i piedi di un attaccante lanciato in gol a mille all’ora e poi di rialzarsi, risistemare il ciuffo e rinviare.
Tutto qui, dietro di se il baratro, lui la diga a cui il Toro è arpionato. Come è successo l’ultima domenica in Italia, a Milano contro l’Inter, in uno zero a zero che porta la sua firma, sia sul risultato, sia sul quinto scudetto.
Per essere baciga bisogna avere coraggio, ma anche disprezzo del pericolo, devi essere un po’ matto e un po’ artista.
Segue Ballarin, c’è anche suo fratello da qualche parte nello stadio e dietro di lui il conte.
Gabetto, ah si Gabetto ha giocato anche nella Juve. È un signore elegante i suoi capelli sono tirati a lucido, li potresti contare uno a uno.
Quando gioca è una armonia, è profondamente scaramantico, ripete minuziosamente tutti i gesti che ha fatto l’ultima volta che ha giocato e vinto.
Si veste nello stesso modo, ripete piccole e private cabale, poi entra in campo con la sua maglia numero 9 e si mette ad aspettare ogni pallone che Menti da una parte e Mazzola dall’altra fanno piovere in area.
E questo è il suo mondo, l’area di rigore, questi sedici metri che vanno tra due linee bianche che rappresentano una fascia che viene scrutata da tutto il pubblico col fiato tirato, gli occhi spalancati, con l’anima in gola pronta ad urlare quella parola talmente dolce, che non la sprechi per non dire che l’hai usata quando non ti serviva.
In quell’area Gabetto è il terminale di tutti i nostri sogni, e lo vedo girare la testa, scrutare a 360 gradi il campo, cercare, nelle pause, il volto di qualche persona amica, di quelli che al bar lo incontrano e lo chiamano affettuosamente Guglielmo e lui risponde, in quella Torino che aspetta qualche raggio di sole alla domenica per correre allo stadio di Via Filadelfia a veder giocare il TORO.
Perché Gabetto e tutti gli altri sono uomini normali, usciti dalla guerra, hanno due paia di scarpe, uno per andare in giro e uno per giocare al calcio, il giorno finiti gli allenamenti vanno a casa in tram.
Sono una squadra, sono gli invincibili, sono un gruppo di amici, tra essi è Martelli, Danilo godeva di tale considerazione da parte dei suoi compagni, che quando il Toro ebbe necessità di vendere qualcuno per riassestare le proprie finanze, e aveva pensato di cedere Martelli, nuovo astro nascente e appetito da molte squadre, i suoi compagni organizzarono una specie di autotassazione per arrivare alla metà della cifra che l'avrebbero pagato le altre squadre, pur di farlo rimanere granata. Dettagli di rapporti umani irripetibili o una storia comune? Forse una storia comune, eppure così lontana, così affascinante, così densa di tanti altri significati. Basta pensare che questo amore lo consegnò alla memoria di tutti.
Ma adesso sono in campo, in questa interminabile partita che si svolge nella mia mente, in cui il Torino sta perdendo, ha preso un gol!!!
No non era fuorigioco, a nessuno è venuto il sospetto che fosse irregolare, ma quale moviola, ma quali commentatori bene informati, gli avversari hanno segnato.
Stiamo perdendo. Gli invincibili non cercano nel fondo delle tazze i motivi della loro rovina, gli invincibili giocano a calcio, giocano il calcio.
Gli avversari hanno segnato, potrebbe essere chiunque quel giocatore avversario che ha fatto gol. Ha la maglia dell’Inter, anzi della Juve (l’ex squadra di Gabetto) o del Milan.
Ecco, ecco quello che ha segnato e del Milan, Milan 1 Torino 0. Non si può vincere sempre dieci a zero come è successo contro l’Alessandria. Questa volta bisogna rimontare.
Perché si può rimontare, ma non vedo la giusta grinta oggi, forse qualcosa non va, forse mister Lievesley non ha detto le cose giuste a questi uomini del Torino a cui noi tutti adesso affidiamo il nostro orgoglio.
Lo stadio è in piedi, tutti applaudono, battono i piedi a terra, invocano TORO, TORO, nessuno li ha organizzati, è la nostra passione.
Sento tutto, gli applausi, le urla, immagino un signore davanti a me che si gira e mi dice, in un dialetto che non capisco, qualcosa che intuisco essere più o meno “oggi non è giornata”. Ma dietro di me papà mi riassicura.
Vedrai è solo il primo tempo è già successo con la Roma, andare sotto di un gol, ci può stare. Una volta perdeva uno a zero poi vinse sette a uno.
Si ma come si fa?
Intanto il ferroviere, “il Bolmida”, si è alzato.
La gente intorno ha fatto silenzio, tutti lo guardano ammirati, è il suo momento. Ci vuole tutta la grinta adesso, è ora di diventare grandi, GRANDE TORINO.
Bolmida tira fuori la tromba e suona la carica.
Quella di cavalleria, mentre suona lo stadio tace, i giocatori rallentano il gioco, osservano con rispetto qualche attimo di tributo al loro tifoso che li sta invocando, che sta ricordando loro che siamo qui per vederli essere quella perfetta macchina da gioco, costruita con amore da Ferruccio Novo e consegnata non agli sponsor, non alle TV, non alla borsa, ma alla gente che ha diritto a novanta minuti di gioco come solo gli invincibili del Torino sanno fare.
La carica finisce, un lungo applauso, Valentino Mazzola si rimbocca le maniche è la liturgia della domenica granata, il prossimo passo è trasformare lo stadio in arena dove il Toro vince. Esperimento di tauromachia universale, da animale sacrificale ad ara del calcio.
E così è ogni notte. I passaggi di Loik, la geometria di Castigliano, l’impareggiabile grinta di Rigamonti, la velocità di Menti, nomi consacrati dal destino ad essere toponomastica delle domeniche alla radio.
Tutti i loro nomi sono diventati quello di uno stadio.
Li immagino aspettarsi, alla fine di una giornata di allenamento, voci nei corridoi, asciugamani in cui avvolgono la testa bagnata prima di impomatarla come è degno dell’epoca.
Dopo la partita ci si trova in centro, Rigamonti (il riga se non è in campo è scappato in moto), Bacigalupo (il bacia) e Martelli sono il trio Nizza.
Abitavano lì nei primi giorni da giocatori del Toro, in una pensione.
Nel cortile dello stadio Filadelfia, le maglie ad asciugare, sudari collettivi di un mondo che vuole ricominciare a vivere e lo fa giocando.
Il Torino è l’Italia, il granata è l’azzurro, il capitano è sempre lo stesso e non lo piegano supposizioni, illazioni, il fastidio di una vita privata che viene già deviata verso la morbosità pubblica.
Valentino è di tutti, come il Torino, come il sogno degli invincibili. La partita continua, il Toro attacca, a testa bassa, sbuffa, ma è elegante.
Guardo Rigamonti intercettare il cross che sarebbe destinato alla punta milanista. Palla a terra guarda avanti Mario, davanti è la vita, davanti è la gloria, davanti c’è il gol. La palla è del Toro, il pubblico tace, riprende fiato. A centrocampo Casigliano si è liberato raggiunge il pallone e adesso fa passettini verso la linea di mediana. Intanto Menti si apre a destra, mentre Loik, che ha già ricevuto il pallone, immagina dove può essere il suo capitano.
La loro è una intesa che viene da lontano, da Venezia dove sono diventati uomini insieme, Loik a Mazzola, Mazzola a Loik, lungo per Menti, palla in area, Ossola fa il velo per l’accorrente Gabetto, colpo di testa e gol, anzi no!! Traversa, perché a segnare subito non c’è gusto, perché è nella difficoltà che si tempra il carattere, perché questo gol me lo voglio sognare bene e poi Gabetto deve segnare il gol della vittoria, quindi palla a Mazzola che apre a sinistra, c’è Grezar in corsa, piatto di sinistro angolato e pubblico è in piedi, il Toro pareggia.
È ancora Toro, palla avanti, li vedi scendere sulle fasce, guardali agili nella loro casacca aderenti, cucite in lana su cui lo scudetto (sempre lo stesso da 4 anni) è attaccato dalla sarta, non è griffato.
Il Toro gioca e vince, come vinceva nella realtà degli anni quaranta, non ci sono coppe europee, ma la sua fama è mondiale, una tournè sudamericana, il brasile e addirittura in dieci granata su undici contro i maestri inglesi.
Sfida colossale, sconfitta onorevole dinanzi agli spietati leoni di Inghilterra, e loro i granata/azzurri di Vittorio Pozzo, ansimanti e sconfitti persero la gara, ma vinsero il cuore di tutti gli italiani, non solo quelli di parte granata.
Chi poteva contro gli invincibili? Nessuno, il campionato del 1949 si va concludendo e sebbene non è stato un anno da record come quello appena passato, gli invincibili saranno presto Campioni d’Italia per la quinta volta.
Quella coppa che viene consegnata al capitano dei campioni d’Italia, grande come il cuore d’Italia, che conterrà il cuore di tutta l’Italia, Valentino non la vide per la quinta volta e a Pozzo, che sarebbe arrivato a festeggiare i suoi ragazzi, toccò l’ingrato compito di capire da un particolare chi fosse l’irriconoscibile maschera di morte che in un pomeriggio di maggio, bagnato da un cielo cieco e sordo all’amore di tutti, restava sotto un muro della basilica di Superga.
Perché il racconto delle mie sere di bambino parla di un viaggio in Portogallo, dove un amico aspettava per celebrare l’addio al calcio.
Francisco Ferriera, nazionale lusitano e grande giocatore del Benefica, ha invitato il Toro al suo addio all’attività agonistica.
Una festa che avrebbe avuto senso solo se ci fosse stato in campo la vedette dello sport mondiale.
Valentino volò a Lisbona con tutto il Toro, giocò e perse, anzi gioco, perse ma vinse!!!
Uscì dal campo come sempre, la gente era in piedi, il calcio aveva vinto, lo sport aveva vinto, il Torino aveva giocato in quello stadio e come sempre aveva vinto, quantomeno perché tutti erano felici perché gli invincibili erano stati lì.
Il racconto continua col rumore di un aereo in volo tra nuvole basse che sfiorano le cupole di Superga. Torino è grigia, è maggio ma piove, fa freddo non si vede a pochi metri.
Nessuno ancora ha deposto sciarpe e cappelli, sembra che oggi Dio abbia dimenticato di colorare il mondo, vuole destinare a questa giornata solo scene in bianco e nero.
Poi un rumore, ma per me è la sveglia.
Mi alzo, non sono più un bambino, mio padre non c’è, vado a lavorare, ma stasera, come faccio da trenta anni, tornerò nel mio letto a ricordare una voce, chiuderò gli occhi e senza fare altro li vedrò spuntare dal sottopassaggio, lo stadio è già pieno, siamo tutti in attesa, forza Valentino, comincia a giocare, gli invincibili sono immortali.
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