martedì 2 giugno 2009

16-02-2001, «Ridateci lo stadio Filadelfia»

TORINOSETTE, pag.37

OGNI volta che un granata sente dire e vede fare qualcosa a proposito del FILADELFIA, che sia un convegno qualificato o una trucida mattonata in faccia, un progetto firmato e garantito o un ennesimo sospiro inutile, prova insieme soddisfazione per l'attualita', l'eternita' del suo tempio, e gelosia per l'invasione che il tempio stesso deve subire: sia pura una buona tenera invasione di attenzioni, e qualificate sentimentalmente e/o praticamente. Noi vorremmo che il FILADELFIA rinascesse per magia, costruito in cielo e portato li' dove era prima da angeli come la casa divina di Loreto, senza bisogno neanche di un atomo di dibattito o di lavoro, ma poi ci piace che intorno ad un terreno vago e ad alcuni calcinacci giochino in molti al gioco di fare uno STADIO moderno che inglobi, immilli quello antico, che sia funzionale e sentimentale, polimorfo e monolitico. Giochino in tanti al gioco dell'architettura pratica e sentimentale. Specie adesso, con la rinascita del FILADELFIA che, da immanente come e' stata per tanti anni, immanente nel senso di appartenere all'essenza del Toro, al suo essere ed al suo divenire, si fa imminente per virtu' di progetti, di impegni, di denaro finalmente arrivato in dosi giuste. Certo che adesso i convegni sono piu' difficili di quando qualcosa del FILADELFIA rimaneva comunque in piedi, e ognuno poteva visitare il posto di questa poesia che ora funziona eslusivamente sulla fiducia, sulla fede, sul ricordo, sula fantasia, mentre allora era toccabile, palpabile. Era molto facile provare «qualcosa» andando al FILADELFIA, respirando il tempo, la nostalgia, il dolore, fantasticando sulle magie calcistiche di chi aveva volitato su quell'erba, per la gioia fiera del popolo granata. Vuol dire che al convegno porteremo il mattone del FILADELFIA, quello raccolto, come fecero in tanti, il giorno della demolizione. Citando coraggiosamente, e pazienza se gaglioffamente Brecht, il quale una volta narrava del se stesso esule, e si scusava di parlare sempre e soltanto di cio' che aveva lasciato indietro. Nella valida traduzione italiana il poeta tedesco diceva di se stesso: «E questo e' tutto, e gia' non e' che basti - ma forse vi dira' che esisto ancora -. Son come quello che con se' portava - sempre un mattone, per mostrare al mondo - come era stata un giorno la sua casa».
Gian Paolo Ormezzano

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