giovedì 25 giugno 2009

DELENDA CARTHAGO, PHILADELPHIA RESTITUENDUS

A proposito di Novelli e del Fila
Tratto dal pezzo apparso su Fegato Granata nel Settembre 2001

Nella Roma repubblicana del terzo secolo A.C., c'era un tale che andava ripetendo ad ogni occasione «delenda Carthago» («Cartagine dev'essere distrutta»). Si chiamava Catone, e probabilmente i suoi concittadini lo giudicavano un tipo un po' fissato, della serie a Catò... l'amo capito... nun ce stà a rompe 'gni vorta co' 'sta Cartaggine! Ma lui, tetragono, insistette col suo tormentone finché la città africana fu rasa al suolo e sulle sue rovine fu sparso il sale, ché non ci ricrescesse più neppure l'erba. Novelli non ha sparso il sale sulle rovine del Filadelfia, ma è come se l' avesse fatto. Sono passati sette anni dacché Don Diego s'era impegnato a restaurare uno stadio malandato, ma ancora integro e orgogliosamente in piedi. A tutt’oggi Don Diego non solo non ha mantenuto la parola data, ma ha fatto ben di peggio: l'ha raso al suolo, lasciando ritti solo tre monconi. Nella Torino repubblicana del ventesimo secolo D.C. c'era un tale che andava ripetendo ad ogni occasione, a voce e per iscritto, sui giornali e alla TV, nelle conferenze stampa e nei dibattiti, alle cene dei club e per la strada, che "Filadelfia restituendus est", il Fila deve essere ricostruito. Quel tale sono io, e anch'io rischio a volte d'esser giudicato monotono come Catone "Collino?... ah, sì... quello che ha la fissazione del Fila". Non dev'esser però una fissazione tanto strana, questa, se intorno all'argomento ci hanno scritto un libro ("Filadelfia, la fossa dei leoni" di Oberdan Ussello) e almeno un capitolo specifico in ogni pubblicazione che trattasse del Toro. Sul tema esiste una rassegna stampa colossale, ricca di centinaia di articoli a stampa e di decine di servizi televisivi. C'è persino una documentatissima tesi di laurea negli archivi della facoltà di Architettura. La preoccupazione della gente (gente d'ogni paese, età, sesso e strato sociale) sulla sorte del glorioso impianto ha causato interrogazioni parlamentari a Montecitorio, asperrime contese in Sala Rossa, due appelli di Tuttosport cui i lettori hanno risposto in massa, inviando ogni volta più di centomila firme. Solo negli ultimi sette anni, durante la spocchiosa gestione del problema da parte di Novelli, son nate per vegliare sul destino del Filadelfia due associazioni di tifosi (le Sentinelle e l'Associazione Memoria Storica Granata) nonché una Fondazione voluta dall'ex sindaco comunista e costituita dal Torino Calcio, dal Comune e da alcuni presunti VIP di fede granata. Ma non basta: è nato un nuovo giornale, "Il trombettiere del Filadelfia", apposta per mobilitare i tifosi dopo il clamoroso voltafaccia della Società. Purtroppo, accanto ai tanti che si struggevano al capezzale del Tempio in agonia, c'era chi considerava la venerazione per esso come un patetico, inutile e controproducente sentimentalismo.Erano e sono gli stessi che esortano i tifosi a "non piangersi addosso" (lo ha detto Cimminelli in più di un'occasione), e accusano di feticismo chiunque osi protestare per la demolizione. Non è un'esagerazione: "feticista" è l'esatto epiteto affibbiato da "faccia da loculo" a Mecu Beccaria. Ora che finalmente l'AMSG si è svegliata e ha capito che Fegato fin dal '95 aveva ragione, ora che Trabaldo e i Fedelissimi gridano al tradimento, Novelli ribatte che son solo dei feticisti. Non c'è da stupirsi. Già nel 1995, esattamente il 30 di marzo, aveva detto di fronte alla Commissione Cultura del Comune di Torino, parlando del Filadelfia: «...venerdì della prossima settimana faremo un'assemblea con tutti i rappresentanti dei club granata... quindi, anche per dire, non è che andiamo lì a distruggere le memorie, salvaguardiamo tutte le cose che ricordano il Grande Torino... sì, perchè son già arrivati, sono tutti lì, vogliono fotografare tutto....la panca dove si sedeva Valentino Mazzola....l'angolo dove starnutiva Gabetto...» Se non vi basta il testo, dovreste sentire il tono sprezzante con cui faccia da loculo pronuncia l'ultima frase, dal «sì, perchè son già arrivati...» fino a quell'incredibile «...dove starnutiva Gabetto» a cui manca solo la chiosa «poveri scemi!”». Quei poveri scemi eravamo noi delle Sentinelle, ma non così scemi da non avere il nastro registrato, destramente passatoci da una nostra talpa al municipio. Lo manderemo in onda, amplificato, durante il festival del decennale perchè, scritte, quelle parole fanno già un certo effetto, ma ascoltate sono impressionanti. Non si capisce come abbiano potuto affidare la sorte del Filadelfia ad uno che fin dall'inizio ne parlava in questi toni.Oppure lo si capisce fin troppo, alla luce degli ultimi sviluppi della questione stadi. Novelli ha anche la faccia tosta di ripetere, adesso, che la soluzione finale proposta da Cimminelli (un campetto "della memoria" da 4000 posti con sede sociale e museo, naturalmente coi negozi intorno anche se, bontà sua, senza Hotel) era l'obbiettivo della Fondazione fin da quando nacque. Altra menzogna. La frattura insanabile fra l'ex sindaco comunista e Fegato Granata si era verificata immediatamente, nei primi mesi del '95, proprio su questa ipotesi. Fegato contestava il sacrificio del campetto in favore dell'albergo, e la spesa di 50/70 miliardi (era quella la previsione di allora) per un impianto che non solo non sarebbe servito alla prima squadra per giocarci in campionato, ma sarebbe stato profanato e strangolato da palazzi e cubature commerciali. Piccolo per piccolo, dicemmo fin da subito, tanto vale restaurare il Fila così com'è, valendoci del progetto Zavanella (già pagato e messo a disposizione da Gerbi), che prevede una spesa di soli nove miliardi. Don Diego capì allora che per farci digerire il suo (suo?...) "contorno commerciale" doveva prometterci un impianto da campionato. Di fronte a quel sogno, che significava il ritorno alle origini e la garanzia di 7-10 punti in più per ogni campionato, la maggior parte dei tifosi si fidò di lui, che nel frattempo faceva il giro delle sette chiese (cioè visitava i club della curva, le circoscrizioni, i Rotary...) sciorinando disegni, plastici e progetti. La capienza passò (tanto, promettere non costra nulla) dai 7/12000 posti a sedere iniziali (con strizzatina d'occhio del crisantemo, come dire "poi vedrete che in corso d'opera.... sapete come vanno queste cose... lasciatemi lavorare..."), ai 15/21000 del secondo progetto Renacco, diventati 25000 sotto Vidulich con l'abbassamento del terreno, e 35000 nel cheeseburger a più strati di Cimminelli, quello con il tunnel su Via Giordano Bruno e l'entrata dal lato ferrovia. Ma solo con il progetto Vidulich, ripeto, Novelli è riuscito a farci inghiottire il rospo della demolizione. Le sue balle tecniche per giustificarla, quelle sull'amianto, sui tubi e sui pericoli di crollo (mai partite ordinanze comunali che parlassero di crollo strutturale, abbiamo controllato), non le abbiamo mai bevute. Speravamo solo che il sacrificio servisse alla realizzazione del grande sogno. Ora che il sogno è svanito, non ci resta che piangere la morte del vecchio Campo e recitare il "mea culpa" con umiltà, perchè di questa morte siamo tutti un po' colpevoli, non foss'altro che per aver rinunciato ad opporci in modo più deciso. Alla sua dismissione, prima, e alla sua demolizione, dopo. Magari usando metodi da "popolo di Seattle", visto che l'ultimo G8 ha dimostrato che funzionano. Quando la colpa non è di nessuno in particolare, diventa un po' di tutti. Un po' di storia non guasta, per capire come si è arrivati a tanto, nell'indifferenza generale. Nel 1963 il Toro emigra al Comunale per le partite di campionato. Il Fila è declassato a campo di allenamento e, con la scusa del piano regolatore («...per giocare, giochiamo al Comunale... qui ci alleniamo finché sta in piedi, tanto il piano non consente di fare nulla...»), viene abbandonato a se stesso, cioè in pratica non gli viene più fatta alcuna seria manutenzione strutturale. Segue di lì a poco la chiusura al pubblico delle gradinate e della tribuna in legno. Gli spettatori che assistono agli allenamenti e alle partite della Primavera devono stiparsi nel parterre e nei due spigoli nordovest e sudovest, (quelli risparmiati anche oggi dalle mai abbastanza maledette ruspe di Novelli) e per sostenere il tetto della tribuna viene montata un'impalcatura di tubi Innocenti. A proposito di quei tubi, vale la pena ricordare che per il loro noleggio il Torino ha pagato alla FIP di Pederzoli un canone annuale di circa sei milioni fino alla fine della gestione Pianelli, ma dall'avvento di Rossi in poi più niente, salvo qualche tessera d'ingresso data in omaggio alla ditta, senza che per ciò venisse aperto alcun contenzioso.Eppure per giustificare la prematura demolizione della tribuna in legno (inizialmente tutelata dal compianto architetto Ormezzano, ma poi svincolata dopo la sua morte dall'architetta Daniela Biancolini, che gli era succeduta in sovraintendenza) Novelli andava dicendo che c'era il grosso problema dei tubi e che bisognava assolutamente rimuoverli (con conseguente, inevitabile crollo del tetto...) perchè, a parte i canoni di nolo arretrati da saldare, avrebbero continuato a far maturare ulteriori e inutili spese di noleggio. Ma non era vero: quando nel '97 la Pederzoli, sollecitata dalla Fondazione, è venuta a toglierli per consentire l'abbattimento della tribuna, non solo non ha preteso alcun canone arretrato, ma non ha neppure chiesto il rimborso delle spese di smontaggio e asporto. Il bello è che il tetto, a sentire Novelli, sarebbe dovuto crollare appena tolto il sostegno dei tubi, e invece se n'è rimasto là beffardo e saldo, ad aspettare in piedi l'estremo affronto delle motoseghe. Comunque, nessun costo per i tubi: era solo una scusa, una delle tante escogitate dal presunto onorevole per giustificare davanti all'opinione pubblica (buona parte della quale lo scongiurava di desistere, di aspettare) la sua criminale azione demolitoria. Una bufala, come la storia del terribile "pericolo-amianto".Tutto l'amianto presente al Fila si riduceva al tetto della tribuna, che era in Eternit come lo è tuttoggi quello dei capannoni Fiat a Mirafiori e di mille altri edifici italiani senza che per ciò si debba abbatterli. La legge consente di applicare all'Eternit una vernice speciale che imprigiona le microfibre di asbesto della sua componente amiantosa. Si può farlo senza neppure rimuovere le lastre. Nel '70 Pianelli costruisce, in fondo al cortile, il capannone in lamiera sotto il quale si allenerà la prima squadra nei giorni di maltempo fino alla dismissione dell'impianto. Ma l'erosione delle gradinate continua, e nel 1989 il presidente Mario Gerbi commissiona all'architetto Zavanella un progetto che prevede per lo stadio la conservazione, dopo accurato e rispettoso restauro, di tutti e quattro i lati per una capienza di 14.000 posti a sedere. In quello stesso anno giunge a maturazione il mutuo federale, e Gerbi può riscattare il campo dalla Federcalcio per la cifra simbolica di trenta milioni. Nelle more dell'operazione il controllo del Torino passa a Gian Mauro Borsano il quale, all'atto della voltura, vorrebbe intestarlo alla Gima. Gerbi però si oppone, e fa pervenire una diffida della Federcalcio al nano cammellato, che rinuncia all'insana idea. Così il glorioso impianto può finalmente diventare proprietà effettiva del Torino Calcio, come era (e sarebbe ancor oggi) sacrosanto. Il resto è storia recente. Nel '93 un’interrogazione parlamentare dell’On. Borghezio porta il problema all’attenzione della Sovraintendenza Centrale di Roma, che sollecita un'azione concreta da parte di quella periferica di Torino. Questa, a sua volta, coinvolge il Comune, che per tutta risposta vieta l'accesso al Fila ad un pubblico che superi le 100 unità. L'escamotage del "non più di 100" (numero massimo mai controllato con pignoleria da nessun tutore dell'ordine, a dire il vero) consente ai patiti di assistere ancora agli allenamenti fino al settembre '94, quando l'accesso del pubblico viene proibito totalmente, per motivi di sicurezza. Calleri rifiuta di investire 200 milioni nei lavori chiesti dal Comune per restituire all'impianto l'agibilità, ancorché limitata, e lo dismette, schivando le responsabilità (remote) di danni a terzi, ma commettendo una stupidaggine colossale. La dismissione ufficiale, infatti, è come una condanna a morte per il Fila. Dopo di essa le difficoltà burocratiche per un eventuale recupero e i costi relativi crescono enormemente. Tutti i progetti successivi a questo atto insensato di Calleri (da quelli dei Renacco all'ultimo, avveniristico, di Rolla) vengono vagliati dalle autorità competenti come se riguardassero un insediamento totalmente nuovo. E questo perchè il Fila dismesso è "senza funzione", è come se non esistesse, non costituisce più una preesistenza su cui lavorare, è solo un terreno con ruderi. Senza dismissione avremmo potuto discutere col Comune di ristrutturazione, di modifiche, di adeguamenti alle leggi, ma nessuno si sarebbe sognato di contestare la presenza e la funzione dello stadio nel quartiere. Con la dismissione si parte da zero, e ce la menano con i posteggi, con gli spazi di sfogo, con l'impatto ambientale e con tutte le altre seghe.Nonostante ciò, la buona volontà della giunta Chiamparino di approvare il progetto Rolla c'era (lo ha detto personalmente il sindaco alla Palazzina di Stupinigi, nel luglio scorso, alla festa della promozione in A di Camolese), ma Cimmi è stato costretto a dirgli di no.Forse questa era una delle clausole che Agnelli ha posto nel permettergli di rilevare il Toro (o nell'ordinarglielo, cambia poco). La juve vuole assolutamente comprare il Delle Alpi ad un decimo del suo valore. L'unico passaporto politico per una simile, scandalosa beneficienza pubblica è la presenza di entrambe le squadre cittadine nella veste di beneficate. Quindi, se il Toro avesse già un suo stadio personale, non si potrebbe affibbiargli il Comunale per fingere un’assegnazione equanime. Ormai, quindi, la speranza di giocare le partite ufficiali nel Filadelfia rinato è svanita.La maggior parte dei tifosi granata, se avesse saputo che un Fila da campionato non si poteva e non si doveva fare, non avrebbe lasciato buttar giù quello vecchio, per malandato che fosse. Ci hanno presi per i fondelli, tutti, ma soprattutto lui, Novelli, che però non si scompone davanti alle nostre accuse. Fegato granata per lui non esiste. A La Repubblica ha persino dichiarato, il crisantemo, che ogni critica proveniente da noi non merita di essere presa in considerazione, perchè «Collino, con i suoi mantelli colorati è solo una macchietta folkloristica». Se questi sono i forti argomenti con cui dovremmo misurarci, capisco il declino politico del personaggio.





by Manlio Collino

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