Ecco dove mi hanno rapito il cuore
Il Filadelfia è stato il motore di tutto. Per spiegare l'unicità del Toro e della maglia granata bisogna partire da quel campo con le tribune in legno, nato e cresciuto tra i palazzi della città. Tutte le società hanno una propria storia fatta di soddisfazioni e delusioni: la nostra è ingigantita dagli eventi. Per fare un esempio: nessuna squadra ha mai dato dieci titolari alla nazionale: il Torino sì. Contro l'Ungheria nel 1947. Poi quei ragazzi sono morti a Superga, ma chi è rimasto ha trovato la forza per ripartire e tramandare una storia che si è fatta mito. È dentro il Filadelfia, nei suoi corridoi e nei suoi spogliatoi che il Toro è diventato qualcosa di anormale. Cinque-sei stanzoni, ci cambiavamo tutti là sotto, dall'ultimo ragazzino al capitano della prima squadra: i giovani crescevano con quelle maglie davanti e con un pensiero fisso: «Domani toccherà a me indossarla». C'era un attaccamento quasi morboso: sapevamo che dovevamo rispettare quel luogo, era lo stadio del Grande Torino. Il mio primo giorno al Filadelfia lo feci con la maglia del Legnano, avevano organizzato un provino proprio per me. Non ricordo nemmeno come giocai, ma soltanto che mi presero. Lì dentro si sentiva il peso della storia, dopo un mio gol un tifoso disse: «Così segnava Libonatti», l'argentino che col Toro vinse lo scudetto nel 1928. L'esordio invece, quello sì che non posso dimenticarlo: contro il Cagliari di Gigi Riva, era il 23 marzo del 1969: i «vecchi» come Cereser e Ferrini, il nostro capitano, mi avevano preparato, poi nel sottopassaggio del Comunale si avvicinò proprio Riva che mi disse: «Niente paura, arriviamo tutti e due dal Legnano, non possiamo sbagliare». Lui se ne era andato quattro anni prima, avevo preso io il suo numero undici. Da quella domenica di marzo nacque il mio amore con la Curva Maratona. Era la mia bussola, dal campo sentivo l'urlo e capivo quanti metri distavo dalla porta avversaria. Ci completavamo io e la Curva. Dopo le partite tornavo a casa a piedi parlando con i tifosi, con loro ho fatto anche a pugni e durante una partita col Milan ho praticamente fermato da solo un'invasione di campo. Gianni Brera mi soprannominò Puliciclone, ho ancora incorniciato il titolo della Gazzetta dopo una vittoria sul Milan con mio gol: «Si abbatte un Puliciclone su San Siro». E poi i gol nei derby: nella memoria è rimasto il pallonetto a Zoff, ma io preferisco ricordare un sfida Primavera a Villar Perosa, la casa della gi**e: otto contro undici abbiamo vinto 1-0 con un mio colpo di testa. Siamo tornati al «Fila» in pullman circondati dai tifosi esultanti. Perchè battere la gi**e era una goduria a qualsiasi livello. Ora quello spirito si è perso, gli ultimi a tramandarlo sono stati Zaccarelli e Camolese, cresciuti nel vecchio stadio e poi diventati allenatori del Toro. Poi hanno distrutto il Filadelfia e quel giorno il Toro ha cominciato a morire. Il fallimento è stato l'inevitabile finale di una brutta storia, ma una squadra e dei tifosi che si sono risollevati da Superga non potevano farsi abbattere. Infatti siamo ripartiti, ora serve tempo per ricreare quello spirito. Dicono che quelli del Toro guardano troppo al passato? Sfido chiunque a dimenticare i propri genitori, i propri fratelli. Chi lo fa abbia il coraggio di dirlo, altrimenti lasci perdere certe scemenze.
Paolo Pulici
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=137832
Il Filadelfia è stato il motore di tutto. Per spiegare l'unicità del Toro e della maglia granata bisogna partire da quel campo con le tribune in legno, nato e cresciuto tra i palazzi della città. Tutte le società hanno una propria storia fatta di soddisfazioni e delusioni: la nostra è ingigantita dagli eventi. Per fare un esempio: nessuna squadra ha mai dato dieci titolari alla nazionale: il Torino sì. Contro l'Ungheria nel 1947. Poi quei ragazzi sono morti a Superga, ma chi è rimasto ha trovato la forza per ripartire e tramandare una storia che si è fatta mito. È dentro il Filadelfia, nei suoi corridoi e nei suoi spogliatoi che il Toro è diventato qualcosa di anormale. Cinque-sei stanzoni, ci cambiavamo tutti là sotto, dall'ultimo ragazzino al capitano della prima squadra: i giovani crescevano con quelle maglie davanti e con un pensiero fisso: «Domani toccherà a me indossarla». C'era un attaccamento quasi morboso: sapevamo che dovevamo rispettare quel luogo, era lo stadio del Grande Torino. Il mio primo giorno al Filadelfia lo feci con la maglia del Legnano, avevano organizzato un provino proprio per me. Non ricordo nemmeno come giocai, ma soltanto che mi presero. Lì dentro si sentiva il peso della storia, dopo un mio gol un tifoso disse: «Così segnava Libonatti», l'argentino che col Toro vinse lo scudetto nel 1928. L'esordio invece, quello sì che non posso dimenticarlo: contro il Cagliari di Gigi Riva, era il 23 marzo del 1969: i «vecchi» come Cereser e Ferrini, il nostro capitano, mi avevano preparato, poi nel sottopassaggio del Comunale si avvicinò proprio Riva che mi disse: «Niente paura, arriviamo tutti e due dal Legnano, non possiamo sbagliare». Lui se ne era andato quattro anni prima, avevo preso io il suo numero undici. Da quella domenica di marzo nacque il mio amore con la Curva Maratona. Era la mia bussola, dal campo sentivo l'urlo e capivo quanti metri distavo dalla porta avversaria. Ci completavamo io e la Curva. Dopo le partite tornavo a casa a piedi parlando con i tifosi, con loro ho fatto anche a pugni e durante una partita col Milan ho praticamente fermato da solo un'invasione di campo. Gianni Brera mi soprannominò Puliciclone, ho ancora incorniciato il titolo della Gazzetta dopo una vittoria sul Milan con mio gol: «Si abbatte un Puliciclone su San Siro». E poi i gol nei derby: nella memoria è rimasto il pallonetto a Zoff, ma io preferisco ricordare un sfida Primavera a Villar Perosa, la casa della gi**e: otto contro undici abbiamo vinto 1-0 con un mio colpo di testa. Siamo tornati al «Fila» in pullman circondati dai tifosi esultanti. Perchè battere la gi**e era una goduria a qualsiasi livello. Ora quello spirito si è perso, gli ultimi a tramandarlo sono stati Zaccarelli e Camolese, cresciuti nel vecchio stadio e poi diventati allenatori del Toro. Poi hanno distrutto il Filadelfia e quel giorno il Toro ha cominciato a morire. Il fallimento è stato l'inevitabile finale di una brutta storia, ma una squadra e dei tifosi che si sono risollevati da Superga non potevano farsi abbattere. Infatti siamo ripartiti, ora serve tempo per ricreare quello spirito. Dicono che quelli del Toro guardano troppo al passato? Sfido chiunque a dimenticare i propri genitori, i propri fratelli. Chi lo fa abbia il coraggio di dirlo, altrimenti lasci perdere certe scemenze.
Paolo Pulici
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by Tanaus
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