di "Andrea Satta"
Se un extraterrestre arrivasse a Torino, lo porterei proprio davanti al Filadelfia, lo stadio antico e fatiscente, sulla strada che dai quartieri popolari vola verso le tangenziali, verso tutto e verso niente. Lo abbraccerei lì, come un amante. «Non posso spiegarti - gli direi - non c’è più tempo, ci vorrebbe un’altra vita e neanche basterebbe e poi forse, mentre ti parlo, ti distrarresti, perché ti succederebbe altro e non vorresti prestarmi più il tuo tempo. Preferisco stare stretto a te, senza parlare, finché si potrà fare». Il cancello è rosso, i tori dipinti sembrano ricolorati di fresco, brutali bandoni sequestrano il perimetro, che Dio ne abbia in gloria gli artefici e li perdoni. S’intravede anche un pezzo di tribuna masticata dal vento, uno scheletro di ghisa e di cemento. Con un salto mi siedo proprio lassù, in alto, dove è pericolante e si cade facilmente, dove tutto si sbriciola lentamente. Ficco il naso e gli occhi tra le feritoie e il cancello che si oppone, intravedo un pezzo di campo che a me pare santo. Vola un pallone, tiro al volo con precisione, la bandierina del calcio d’angolo sventola noncurante, ora potrei segnare, alzare le braccia e urlare finalmente, allentare il morso della vita che mi uccide, correre verso la folla e impazzire. Ma io vengo dopo tutto e tutto questo non l’ho mai visto accadere. So però che l’ultimo goal qui lo fece Bearzot, nel ’63, 1 a 1 col Napoli di Corelli. Me l’ha detto Darwin Pastorin, che gliel’ha detto Franco Ossola, il figlio di Ossola del Grande Torino, di uno degli eroi giovani e belli. Qui, i palazzi si affacciavano sul campo di pallone e si rubava con gli occhi la partita dal balcone, si poteva mangiare una cosa veloce nel quartiere e raggiungere, nel pomeriggio, la tribuna, piede dopo piede. Ci sono stati flash per un altro stadio, in città in queste settimane, una nuvola di soldi e gloria è volata altrove, e ora, piovono polemiche su questioni di acciaio e sicurezza e per lui, per il Filadelfia, neppure lo scheletro di un sorriso. Meglio consegnare tutto a una lacrima sul viso. È la fine della memoria popolare. Così, a Rivoli, sta per morire un altro fiore, si chiama “Maison Musique”. Nasce da una piantina messa nella terra dal pollice verde di Franco Lucà. La Regione sta tagliando ogni contributo alla cultura, racconta Paolo, il figlio di Franco, che con Rosanna, la sua compagna, custodisce la prestigiosa eredità. La vecchia ghiacciaia-mattatoio, con annessa foresteria, cuore di scelte innamorate e rare, chiuderà. Io l’ho vissuta dalle prime ore, da quando Franco non sapeva dove fosse meglio piazzare il palco e la platea. Porterei lì il mio extraterrestre senza sapere cosa dire. E lui: «Mi dispiace, Andrea, non c’è più niente da fare».
5 novembre 2011
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