«Finché avrò forza parlerò di Piermario e dei suoi valori, cura per il calcio malato La storia granata è unica: va onorata»
Morosini aveva riempito l’esistenza di contenuti. C’è chi campa a lungo per non lasciare nulla, lui ha avuto una vita breve eppure mi ha, ci ha lasciato tanto
Abbandonare il Filadelfia così è un delitto. L’esonero a Reggio mi ha deluso: la squadra era tonica e in salute. Però apprezzo Foti e lo ringrazio
Auguro al Torino di conquistare quello che merita e poi di tornare a dare lustro alle proprie radici. Ma attenti, oggi per i granata sarà dura: Ventura lo sa
Morosini aveva riempito l’esistenza di contenuti. C’è chi campa a lungo per non lasciare nulla, lui ha avuto una vita breve eppure mi ha, ci ha lasciato tanto
Abbandonare il Filadelfia così è un delitto. L’esonero a Reggio mi ha deluso: la squadra era tonica e in salute. Però apprezzo Foti e lo ringrazio
Auguro al Torino di conquistare quello che merita e poi di tornare a dare lustro alle proprie radici. Ma attenti, oggi per i granata sarà dura: Ventura lo sa
STEFANO LANZO
ANGELO GREGUCCI, è un periodo difficile.
«Ho perso il mio allievo prediletto, Piermario Morosini. L’ho allenato nel Vicenza, nel periodo in cui lui era nell’Under 21».
Il suo ricordo?
«Un ragazzo meraviglioso. Voglio accendere le luci su di lui proprio adesso che il grande carrozzone del calcio le sta spegnendo. Finché avrò forza andrò in giro per parlare di Mario, perché se esistono calciatori che si vendono le partite, ebbene in questo mondo a volte fatto di ipocriti esistono anche i Morosini, persone speciali. Tanta gente spesso campa a lungo per non lasciare nulla, lui ha avuto una vita breve eppure mi ha, ci ha lasciato tantissimo».
Il suo rapporto con Mario sembra lontano dal classico schema allenatore-giocatore.
«Da lui posso dire di aver imparato tanto - e qui la voce quasi si rompe dall’emozione -. Di solito è la persona più anziana a trasmettere sensazioni ed esperienze della vita: con Mario capitava esattamente il contrario. Era lui a darti sempre qualcosa: vedo tanti ragazzi completamente vuoti, Mario invece era un giovane uomo che aveva riempito la propria esistenza di contenuti. Mi guardo in giro e sono molto triste: non solo nel mondo del pallone, siamo in un periodo di oscurantismo. Non voglio sembrare retorico, ma è davvero così».
E’ una riflessione amara e condivisibile.
«Il calcio ha tanti riflettori, ma non ha più modelli. Per questo dico che su Morosini non bisogna mai spegnere la luce: lui è un esempio. Come lo è stato, per dire, Maldini: la sua carriera è un modello più all’estero che in Italia. Incomprensibile. I nostri giovani prendono come riferimento i personaggi a effetto, se poi i valori morali non ci sono pazienza, va bene lo stesso. Così no: ci vuole molto di più».
Passando al profano, quale sensazione lascia in bocca l’esonero dalla Reggina?
«Delusione. Anche se ho ringraziato la società e continuerò a farlo. Ho imparato a conoscere e ad apprezzare il presidente Foti: ha compiuto una scelta, che non condivido. Ma chi comanda ha il diritto di prendere delle decisioni, che piaccia o no. E’ un peccato, perché posso dire di aver lasciato una squadra che sta bene fisicamente, è pronta ad affrontare tanti impegni ravvicinati, ha l’organico quasi al completo. Dunque credo di aver almeno messo una buona eredità nelle mani del mio successore».
Sufficiente a ribaltare il risultato con il Torino questo pomeriggio, in 45 minuti?
«Ventura sa che sarà un tempo difficile. Anche nei primi 45 minuti avevamo sfiorato il pari, centrando pure un palo: dopo il loro gol, la Reggina aveva fatto qualcosa in più dei granata. Quindi sarà dura, per il Torino».
Giusto, il Torino: cosa significa per lei?
«Se mi definissi un cuore granata, come magari fanno tanti, sarei un ipocrita. Ho disputato solo una stagione, però posso dire di essere stato un testimone di qualcosa di speciale. Mi sono allenato al Filadelfia nel 1993-94, l’ultimo anno prima della chiusura. C’erano i miei compagni, come Cravero e Marchegiani, che mi parlavano di qualcosa di unico. E io mi chiedevo: ma che cosa cavolo vuol dire? Poi sono entrato al Filadelfia. E ho capito. Ho capito, al di là di tanta retorica, cosa si celi dietro quell’espressione “cuore granata”. Ho capito che c’era qualcosa di inestricabile, ma magico. Non ho e non avrò mai l’arroganza di definirmi un granata, ma posso raccontare una bella storia».
Prego.
«Si parla di quasi vent’anni fa, il Torino era nell’ultimo periodo d’oro, dell’ultima esperienza europea. Era un Toro di grandissimo spirito, che fondava le proprie basi sul settore giovanile: c’era uno straordinario senso di appartenenza, qualcosa di difficilmente replicabile in altre realtà. E poi c’era quello stadio lì, il Filadelfia, dove aveva casa il Grande Torino: ebbene, quello stadio rivendicava l’orgoglio di essere granata. E il suo abbattimento è stato davvero l’inizio della fine».
Si è mai chiesto il perché di questa situazione paradossale? E’ da 15 anni che il Filadelfia è una discarica a cielo aperto.
«Lo so, l’ho visto con i miei occhi».
Ci è passato di recente?
«Sì, per provare a capire. E non ci sono riuscito. Ho parcheggiato in via Filadelfia, ho dato un’occhiata ai ruderi della tribuna, al prato, a quel pezzo di muro che ancora resiste, come allora. Proprio non capisco, proprio è inconcepibile. Lasciare quel posto così, abbandonato a se stesso, senza dargli il lustro che merita, è un delitto. Un affronto alla storia. Dovrebbe essere trattato come un sacrario, il Filadelfia. E invece...».
Invece resta uno scandalo.
«Non entro nel merito di discorsi burocratici o politici, non avrebbe senso. Ma io mi rivolgo alle persone che hanno a cuore il Torino, quelle persone che ho avuto il piacere e la fortuna di incontrare in quella mia stagione in granata. Come Renato Zaccarelli, come Giacomino Ferri che è un amico ed è sempre in prima linea. Ecco, io non so se il Filadelfia verrà ricostruito: lo spero. Ma almeno, nell’attesa, sarebbe giusto che venisse tolta l’erbaccia alta, che venisse sistemata l’area, resa decorosa, con almeno una teca, per ricordare ciò che è stato il Filadelfia, per raccontare cos’era il Grande Torino, una squadra di club che era anche la Nazionale italiana. I giovani di oggi sono come anestetizzati: il nostro calcio quale storia più straordinaria può raccontare di quella del Grande Torino? In quali altri angoli d’Italia si può vantare un simile orgoglio? I ragazzi che passano da via Filadelfia devono poter imparare qualcosa e non andare via come se camminassero davanti a un muro come tutti gli altri».
Gregucci, quando la vedremo allenatore del Torino?
«Questa è un’altra storia... Diventare allenatore del Torino è difficile. Molto difficile. Posso solo fare questo: augurare al Torino, prima di tutto, di conquistare quello che merita in questa stagione. E poi di tornare a dare lustro alla propria storia. Che è unica e che come tale non va gettata via».
Foto: Un tributo a Piermario Morosini, scomparso a 25 anni (Ansa) Angelo Gregucci, 47 anni
ANGELO GREGUCCI, è un periodo difficile.
«Ho perso il mio allievo prediletto, Piermario Morosini. L’ho allenato nel Vicenza, nel periodo in cui lui era nell’Under 21».
Il suo ricordo?
«Un ragazzo meraviglioso. Voglio accendere le luci su di lui proprio adesso che il grande carrozzone del calcio le sta spegnendo. Finché avrò forza andrò in giro per parlare di Mario, perché se esistono calciatori che si vendono le partite, ebbene in questo mondo a volte fatto di ipocriti esistono anche i Morosini, persone speciali. Tanta gente spesso campa a lungo per non lasciare nulla, lui ha avuto una vita breve eppure mi ha, ci ha lasciato tantissimo».
Il suo rapporto con Mario sembra lontano dal classico schema allenatore-giocatore.
«Da lui posso dire di aver imparato tanto - e qui la voce quasi si rompe dall’emozione -. Di solito è la persona più anziana a trasmettere sensazioni ed esperienze della vita: con Mario capitava esattamente il contrario. Era lui a darti sempre qualcosa: vedo tanti ragazzi completamente vuoti, Mario invece era un giovane uomo che aveva riempito la propria esistenza di contenuti. Mi guardo in giro e sono molto triste: non solo nel mondo del pallone, siamo in un periodo di oscurantismo. Non voglio sembrare retorico, ma è davvero così».
E’ una riflessione amara e condivisibile.
«Il calcio ha tanti riflettori, ma non ha più modelli. Per questo dico che su Morosini non bisogna mai spegnere la luce: lui è un esempio. Come lo è stato, per dire, Maldini: la sua carriera è un modello più all’estero che in Italia. Incomprensibile. I nostri giovani prendono come riferimento i personaggi a effetto, se poi i valori morali non ci sono pazienza, va bene lo stesso. Così no: ci vuole molto di più».
Passando al profano, quale sensazione lascia in bocca l’esonero dalla Reggina?
«Delusione. Anche se ho ringraziato la società e continuerò a farlo. Ho imparato a conoscere e ad apprezzare il presidente Foti: ha compiuto una scelta, che non condivido. Ma chi comanda ha il diritto di prendere delle decisioni, che piaccia o no. E’ un peccato, perché posso dire di aver lasciato una squadra che sta bene fisicamente, è pronta ad affrontare tanti impegni ravvicinati, ha l’organico quasi al completo. Dunque credo di aver almeno messo una buona eredità nelle mani del mio successore».
Sufficiente a ribaltare il risultato con il Torino questo pomeriggio, in 45 minuti?
«Ventura sa che sarà un tempo difficile. Anche nei primi 45 minuti avevamo sfiorato il pari, centrando pure un palo: dopo il loro gol, la Reggina aveva fatto qualcosa in più dei granata. Quindi sarà dura, per il Torino».
Giusto, il Torino: cosa significa per lei?
«Se mi definissi un cuore granata, come magari fanno tanti, sarei un ipocrita. Ho disputato solo una stagione, però posso dire di essere stato un testimone di qualcosa di speciale. Mi sono allenato al Filadelfia nel 1993-94, l’ultimo anno prima della chiusura. C’erano i miei compagni, come Cravero e Marchegiani, che mi parlavano di qualcosa di unico. E io mi chiedevo: ma che cosa cavolo vuol dire? Poi sono entrato al Filadelfia. E ho capito. Ho capito, al di là di tanta retorica, cosa si celi dietro quell’espressione “cuore granata”. Ho capito che c’era qualcosa di inestricabile, ma magico. Non ho e non avrò mai l’arroganza di definirmi un granata, ma posso raccontare una bella storia».
Prego.
«Si parla di quasi vent’anni fa, il Torino era nell’ultimo periodo d’oro, dell’ultima esperienza europea. Era un Toro di grandissimo spirito, che fondava le proprie basi sul settore giovanile: c’era uno straordinario senso di appartenenza, qualcosa di difficilmente replicabile in altre realtà. E poi c’era quello stadio lì, il Filadelfia, dove aveva casa il Grande Torino: ebbene, quello stadio rivendicava l’orgoglio di essere granata. E il suo abbattimento è stato davvero l’inizio della fine».
Si è mai chiesto il perché di questa situazione paradossale? E’ da 15 anni che il Filadelfia è una discarica a cielo aperto.
«Lo so, l’ho visto con i miei occhi».
Ci è passato di recente?
«Sì, per provare a capire. E non ci sono riuscito. Ho parcheggiato in via Filadelfia, ho dato un’occhiata ai ruderi della tribuna, al prato, a quel pezzo di muro che ancora resiste, come allora. Proprio non capisco, proprio è inconcepibile. Lasciare quel posto così, abbandonato a se stesso, senza dargli il lustro che merita, è un delitto. Un affronto alla storia. Dovrebbe essere trattato come un sacrario, il Filadelfia. E invece...».
Invece resta uno scandalo.
«Non entro nel merito di discorsi burocratici o politici, non avrebbe senso. Ma io mi rivolgo alle persone che hanno a cuore il Torino, quelle persone che ho avuto il piacere e la fortuna di incontrare in quella mia stagione in granata. Come Renato Zaccarelli, come Giacomino Ferri che è un amico ed è sempre in prima linea. Ecco, io non so se il Filadelfia verrà ricostruito: lo spero. Ma almeno, nell’attesa, sarebbe giusto che venisse tolta l’erbaccia alta, che venisse sistemata l’area, resa decorosa, con almeno una teca, per ricordare ciò che è stato il Filadelfia, per raccontare cos’era il Grande Torino, una squadra di club che era anche la Nazionale italiana. I giovani di oggi sono come anestetizzati: il nostro calcio quale storia più straordinaria può raccontare di quella del Grande Torino? In quali altri angoli d’Italia si può vantare un simile orgoglio? I ragazzi che passano da via Filadelfia devono poter imparare qualcosa e non andare via come se camminassero davanti a un muro come tutti gli altri».
Gregucci, quando la vedremo allenatore del Torino?
«Questa è un’altra storia... Diventare allenatore del Torino è difficile. Molto difficile. Posso solo fare questo: augurare al Torino, prima di tutto, di conquistare quello che merita in questa stagione. E poi di tornare a dare lustro alla propria storia. Che è unica e che come tale non va gettata via».
Foto: Un tributo a Piermario Morosini, scomparso a 25 anni (Ansa) Angelo Gregucci, 47 anni
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