Quest’anno ha finalmente puntato su un allenatore giovane. Purtroppo era quello sbagliato. Non l’ottimo Dal Canto, il cui Padova ieri ci ha impartito una lezione di calcio. Ma Lerda, l’unico al mondo che gioca con quattro attaccanti e mai uno che centri lo specchio della porta. Costui ha disfatto il Toro scarso ma grintoso della scorsa stagione, riempiendolo di sgrigne e di gabionette, artisti del ghirigoro insulso. Una bella mano gliel’ha data il direttore sportivo Petrachi, che in una società normale sarebbe forse un buon mercante di calciatori, ma qui ha dovuto e voluto fare tutto, persino l’uomo-immagine in tv, dove ha teso agguati continui alla lingua italiana.
Cairo deve rendersi conto che il suo tempo è finito. Ha perso l’aura, ha esaurito il credito. Non gli crede più nessuno, qualunque cosa faccia. Se ci comprasse Messi, penseremmo che è rotto. Ora ha tre strade davanti a sé. La prima è rientrare delle spese mettendo in vendita quel poco di argenteria rimasta (Bianchi, Ogbonna, la metà di Dzemaili) e poi restituire il marchio Toro alla città, nella speranza che il sindaco bianconero Fassino sia più fortunato del suo predecessore granata nel convincere qualche banca piemontese a sostenere un imprenditore legato al territorio (fra quelli che conosco, l’unico che ne avrebbe la capacità e la voglia è Marco Boglione della Kappa, che però da solo non ne ha i mezzi). La seconda strada è restare, ma nell’ombra, lasciando la ribalta e i pieni poteri a un esperto in ricostruzioni, un vecchio arnese del calcio alla Pierpaolo Marino. La terza è quella che, temo, percorrerà: rivoluzionare tutto daccapo, vendendo il vendibile, rimpinzando la squadra di prestiti di passaggio e affidando la panchina a Ventura, un fedelissimo di Petrachi, che così controllerà anche l’ultima poltrona che ancora gli sfuggiva. Dalla Cairese alla Petrachese. Quando torna il Toro, fatemi un fischio.
di Massimo Gramellini
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